La discussione, che si
arrovellava da tempo sugli stessi argomenti con frasi dette e ridette da una
parte e dall’altra, fu interrotta da Nello.
«Chi viene con me ad
accompagnare Daniela e Gina?»
Guardai l’orologio come
se questo avesse potuto influenzare la risposta. Era passata l’una di notte, ma
se fosse stato più presto o più tardi che importanza poteva avere? L’accordo impostoci
dalle due sorelle perché partecipassero alla serata era che, nel momento in cui
avessero chiesto di tornare a casa, ci saremo dovuti muovere.
Posai il bicchiere
vuoto sul tavolino, mi tirai su dalla poltrona ed ebbi una breve vertigine. Avevo
bevuto troppo vino e buttato giù diversi bicchierini, e questo era il
risultato!
«Andiamo» dissi esibendo un bel sorriso. Lo
feci perché capisse che avevo intuito il motivo per il quale questa volta voleva
compagnia. Nello aveva sempre sostenuto che guidare lo rilassava e gli
permetteva di far correre liberamente i pensieri, in particolare quando era da
solo, e pertanto si contavano sulle dita di una mano le volte che aveva preteso
che qualcuno andasse con lui.
Nello, Luigi e io ci
conoscevamo dalle elementari ed eravamo cresciuti insieme, condividendo
ogni momento possibile della giornata fino ad avere la stessa visione del mondo,
almeno da ragazzi; poi, le opinioni divennero sempre più personali e a volte
divergenti, com’era naturale che fosse. Questo, però, non ci aveva mai spinto
ad allontanarci l’uno dall’altro e anche in quel periodo, quando ormai
frequentavamo facoltà diverse, facevamo di tutto per incontrarci appena
possibile.
Tra di noi, Nello era stato sempre il più
equilibrato, quello che non parlava senza averci pensato su per un po’, che faceva
le scelte più oculate e che amava l’armonia e non esitava a fare da paciere in
ogni situazione conflittuale.
Luigi, invece, il più istintivo, tipo prima l’azione
e poi il pensiero, ma con un cuore più grande di una capanna: si sarebbe
buttato nel fuoco per noi, e spesso trattava allo stesso modo persone che conosceva
appena.
Io, quando non avevo la testa tra le nuvole, pensavo
di avere un carattere che si situava giusto a metà tra quello dei miei amici.
Con questi presupposti, era ovvio che le discussioni
tra me e Luigi diventassero interminabili. E per le stesse ragioni era naturale
che Nello cogliesse qualsiasi occasione per sedare i nostri diverbi.
Quella sera tutto era nato dalla rabbia che aveva
espresso Luigi per un episodio di violenza accaduto nella periferia nord,
occupata in prevalenza da immigrati. Continuava a sostenere che si doveva
mandarli via e che, essendo l’unica soluzione, si sarebbe dovuto provvedere
anche con la forza, se con le buone non si fossero avuti risultati. Di contro,
io sostenevo che non era facendo di tutta l’erba un fascio che si risolvevano
le questioni razziali, ma che con adeguate misure di integrazione si sarebbero
separati i violenti dalle persone perbene, come del resto era accaduto anche con
i nostri avi quando furono costretti a emigrare. E qui si era scatenata la vera
discussione: sulla differenza di cultura dei vari popoli, sul fatto che gli
occidentali erano diversi dagli altri e così via. E questa teoria io non avrei
mai potuto condividerla.
Di norma Luigi si convinceva dopo un po’, quando la
ragione prendeva il sopravvento sull’istinto, ma quella volta non c’era stato verso
di riportarlo sui binari giusti e questo mi lasciava alquanto perplesso. Le
voci si erano alzate come capita quando due persone parlano senza ascoltarsi
davvero, tutte prese dalla ricerca affannosa di argomentazioni e, forse, anche
per colpa di quello che avevamo bevuto e della stanchezza. Nello, che come ho
detto non sopportava gli alterchi specie dei suoi amici, aveva colto la palla
al balzo con la scusa dell’accompagnamento, per lasciare che gli animi si
placassero.
L’auto procedeva nella notte mentre il mio amico
guidava con calma chiacchierando con le due sorelle. Io ero di nuovo perso
nelle mie fantasticherie, forse anche perché l’alcol continuava a tenermi in
uno stato di attenzione molto superficiale; avevo la testa che di tanto in
tanto cedeva al sonno e che con uno scatto riportavo in posizione eretta, anche
se in fondo non capivo perché mi accanissi a farlo.
Per questo, quando Daniela e Gina scesero dall’auto
fui costretto a un rapido resoconto mentale di chi fossi e in quale situazione
mi trovassi prima di seguirle. Ci salutammo con i soliti baci di commiato e
loro continuarono a scambiare qualche battuta con Nello mentre io, con le
palpebre che mi si chiudevano e un ronzio in testa, non vedevo l’ora di tornare
in auto per evitare di sedermi lì per terra.
Le vidi, finalmente, fare ciao-ciao con le manine e
mi affrettai ad aprire la portiera per lasciarmi cadere sul sedile.
Nello mi guardò con il suo solito sorriso di
compiacenza e riprese a guidare in silenzio.
Abbandonato all’abbraccio del sedile, con la testa
appoggiata al finestrino, ripensai a quanto era accaduto.
“Non mi riusciva proprio di trovare qualche argomento
che lo convincesse! E se, dopo tutto, Luigi avesse ragione? Non dico per
intero, ma una minima ragione potrebbe anche averla”. E la mia mente cominciò a
saltare da un pensiero a un ragionamento, da una teoria alla sua confutazione
mentre gli occhi seguivano inerti le immagini che si susseguivano fuori del
vetro.
Forse dovevo averli chiusi per un attimo, gli occhi,
perché quando un bagliore mi colpì li spalancai. Mi ritrovai a vedere raggi di
luce che si intrufolavano attraverso assi di legno e mi accorsi che tutto era
cambiato intorno a me.
Il rombo dell’auto era mutato nello sferragliare
delle ruote sui binari e io non ero più sul morbido sedile, ma disteso per
terra su un pianale di metallo e legno. Non ero solo, lo sentivo; mi girai
verso sinistra, ma non vidi il viso di Nello.
C’erano altri con me e aguzzai la vista nella luce
così fioca da far sembrare tutto come in quelle vecchie foto ingiallite. Erano
persone di ogni età, uomini, donne e bambini; avevano i volti scavati e gli
occhi sbarrati dalla paura. Erano vestiti nella maniera più disparata
possibile, però tutti avevano una cosa in comune: un doppio triangolo
sovrapposto a formare una stella a sei punte di colore giallo.
Mi resi subito conto che eravamo in un treno per la
deportazione di ebrei verso i campi di concentramento e d’istinto mi tirai su
il bavero della giacca per vedere se anch’io indossassi il simbolo. Lasciai
ricadere il lembo del vestito e mi affloscia sul pianale: ero uno di loro. E se
questo mi fece tremare dalla paura, allo stesso tempo tirai un sospiro di
sollievo vedendo che non ero uno degli aguzzini.
A quel pensiero feci correre lo sguardo tutt’intorno
e lo vidi nella sua uniforme scura, a gambe larghe e con il fucile imbracciato;
tentai di scrutarne il viso, ma una curva improvvisa mi sballottò da una parte
all’altra e per un momento persi l’orientamento.
Quando riaprii gli occhi, tutto mi sembrò uguale,
anche se avvertivo che la scena era mutata.
Mi tirai su a sedere puntellandomi con le braccia
tese e scrutai gli altri passeggeri. Avevano sempre i volti emaciati e lo
sguardo fisso dalla paura, ma mi apparivano diversi; strinsi gli occhi per
vedere meglio e notai che il simbolo sui loro abiti era differente: al posto
del doppio triangolo giallo, c’era un unico triangolo di colore marrone.
Voltai la testa verso destra, nell’angolo dove c’era
il nazista e lo rividi: era sempre nella stessa posa, con il volto oscurato
dall’ombra e il fucile tra le braccia.
Mi alzai e cominciai ad avvicinarmi con il cuore che
prese a battermi con maggiore velocità. Non era paura, non mi interessava il
pericolo verso il quale andavo: dovevo sapere chi era, a ogni costo.
Una frenata brusca mi portò a cadere in avanti, ma
riuscii a tenermi al sostegno della porta scorrevole del vagone, anche se
ruotai su me stesso e urtai con la fronte contro le assi di legno.
Quando mi girai, già sapevo che la scena sarebbe
cambiata. Infatti, sebbene le persone fossero simili alle precedenti, portavano
un contrassegno ancora diverso. Ora era viola.
La testa cominciò a girarmi e le immagini a
confondersi. Il simbolo cambiava colore di continuo: nero, verde, azzurro, rosa
e i triangoli si sovrapponevano nelle più svariate combinazioni cromatiche.
Alla mente mi tornarono le nozioni sulla
deportazione e ricordai il significato di quei simboli.
Ora era tutto chiaro; solo un dettaglio mi
angosciava: chi era il nazista di guardia?
Mi feci coraggio e mi avvicinai sempre di più al
soldato che non mosse un muscolo, rimanendo sempre nella medesima posa,
lasciando che mi accostassi.
Di colpo l’ombra sparì dalla sua faccia per rivelare
un volto senza lineamenti.
Non ebbi il tempo per stupirmi, o forse non lo ero
affatto, quando udii la voce di Luigi che mi chiamava e mi voltai.
Era anche lui tra i prigionieri; cercai il simbolo
sul suo vestito e vidi un triangolo nero, quello che i nazisti usavano per
identificare gli asociali o meglio per bollare coloro che non erano d’accordo
con la dittatura.
Mi venne da ridere: perché, come altro avrebbero
potuto marchiare uno con lo spirito libero e la passionalità di Luigi?
Sentii una mano che mi scuoteva e aprii gli occhi
con uno sforzo tremendo. Nello mi guardava con il suo sorriso ironico e mi
disse: «Bella compagnia che mi hai fatto. Sei stato a dormire per tutto il
viaggio di ritorno e l’hai fatto così profondamente che neanche la capocciata
che hai dato nel finestrino ti ha svegliato. Ti avrei lasciato qui mentre
salivo a chiamare Luigi, ma hai cominciato a ridere e volevo proprio sapere per
cosa».
Lo guardai per un po’ prima di rispondergli.
«Fa scendere Luigi. Sono sicuro che la storia che ho
sognato vi interesserà non poco. Specialmente a quella testa dura del nostro
amico».
«Sì, ma tu non addormentarti di nuovo» mi esortò Nello
dandomi un paio di pacche sulla spalla.
Lo vidi allontanarsi su per le scale e dopo un
attimo sentii che qualcuno mi scuoteva di nuovo.
«Questo perché non dovevi addormentarti...».
Vedevo come attraverso una nebbia; dapprima scorsi
la faccia di Nello e poi sbucare da qualche parte quella di Luigi. Ridevano
tutti e due come scemi; forse l’alcol che a me stordiva, a loro inebriava.
Non so se fu per questo oppure perché avevo paura
che il sogno svanisse come spesso capita, ma presi a raccontare descrivendo
tutto nei minimi particolari.
Man mano che andavo avanti la nebbia si dissolse e
potevo vedere per bene le espressioni dei miei amici.
Nello ora alzava un sopracciglio, ora corrugava la
fronte, ora sorrideva in quel suo modo particolare tirando e arcuando verso
l’alto l’angolo destro della bocca.
Luigi, invece, sembrava vivere il mio sogno come se
fosse stato davvero lì e i suoi occhi si sgranavano per lo stupore oppure si
incupivano per la rabbia, senza che mai l’ombra della paura li attraversasse.
Avevo appena finito il racconto quando mi sentii
abbracciare da Luigi; Nello a poca distanza ci guardava compiaciuto.
Luigi si staccò da me e, continuando a tenermi per
le spalle, disse quasi urlando: «Solo tu, con i tuoi stupidi racconti... maledetto figlio di puttana!».
Lo disse come se fosse stato un complimento e, in
fondo, detto da uno come lui, lo era.
Salimmo in auto e Nello si diresse verso il nostro
posto, quello dove concludevamo le serate, o più spesso le nottate.
L’alba ci ritrovò addormentati, l’uno vicino
all’altro, sulla panchina di fronte al mare.